Storia di cafoni

Storia di cafoni

 

cafoni 

Mauro Crocetta non intende recuperare il logoro clichè del romanzo meridionalista, ma, meno ambiziosamente, ripercorrere la propria memoria e proiettarla in un ambito che gli è stato a lungo familiare: quello dei cafoni del Sud.

Non v’è dubbio che tutti gli ingredienti del mondo contadino meridionale qui si ripetono, trasposti in forma narrativa (e riferiti alla zona dauna di Trinitapoli, di cui l’autore è originario) non senza concessioni all’elemento folcloristico, difficilmente isolabile dal contesto trattato. Ne risulta una vita esemplare di rappresentanti delle classi subalterne meridionali nel periodo fra le due guerre, i quali, nella lotta per la sopravvivenza, esprimono da un lato la conservazione di valori antichi, dall’altro l’incerto affiorare di una coscienza sociale che tarda ad incanalarsi in efficienti forme organizzative, pur tra moti di ira e fremiti di ribellione.

 

Stralcio

L’appuntamento era per le quattro del pomeriggio ed, incredibilmente le ore erano passate troppo in fretta: erano già le tre.

Francesca era impegnata a rassettare l’angolo della cucina. I pochi piatti lavati gocciolavano ancora su un tavolino di legno, la “buffett”, mentre con uno straccio intinto nel mucchio di cenere fregava all’interno di una caldaia di rame stagnata per farla venire lucida e ben pulita.

Anna agghindava a festa i suoi ragazzi. Imprecando perché le scarpe comperate a Michele per la festa della Madonna non gli entravano più, ma erano ancora troppo lunghe per Tonino il quale, con un pantalone fatto in previsione che crescesse più di quanto il Padre Eterno non gli consentisse, sembrava un vero pagliaccio. Gli ultimi due avevano più possibilità degli altri. C’era sempre qualcosa che calzava a pennello.

Il più piccolo, Ninì, brontolava perché, se è vero che trovava le misure, non aveva mai il piacere di indossare un pantalone, non dico nuovo, ma almeno senza quei maledetti occhiali al sedere e le ginocchiere rinforzate di stoffa di colore completamente diverso.

Ciò che Ninì non sopportava era il fatto che la madre, invece di rammendare le parti usurate in maniera da camuffare il tutto, evidenziava le toppe eliminando la vecchia e logora trama.

Leonardo, mentre avveniva la vestizione degli altri, continuava a saziare la sua insaziabile fame sfuggendo all’attenzione di tutti, seduto in un angolo, come un roditore mansueto che altro non vuole che arrotare continuamente i denti.

“Non ci sarà niente per stasera se continui a mangiare!” – esclamò ad un certo punto Anna che lo aveva intravisto, mentre finiva di vestire Ninì che continuava a brontolare anche per i ferri messi alle scarpe che ticchettavano il passo da farlo assomigliare più ad un asino che a un cristiano.

“Questo passa il convento” – continuava a ripetere Anna.

Francesca, dato lo straccio al pavimento sgangherato di mattoni rossi, era andata nel vano letto a mettersi in ordine, indossare un bel vestito di seta color avana, lungo fino al ginocchio, più adatto per l’estate che non per il primo novembre. Ma chi avrebbe mai pensato che ci sarebbe stato tanto freddo in un mese che, se è vero che non si va più al mare, certo è solitamente caldo.

Avrebbe potuto convincere sua madre a comperare un vestito più pesante, ma non ne aveva avuto il tempo. Gaetano solo due giorni prima aveva deciso di ufficializzare il fidanzamento che si protraeva da almeno due anni, di nascosto.

Certamente sarebbe sembrata al suo uomo una gran donna, abituato com’era a vederla la domenica a messa, e ciò avveniva raramente; più spesso la mattina presto, all’ora della raccolta della merda.

Una di quelle mattine, distratta dalla presenza di Gaetano, aveva urtato con il suo candro ormai vuoto, quello di un’altra donna, ancora pieno e fumante che, rompendosi, aveva riempito la poveretta di tanta abbondanza. Francesca, frastornata, era corsa subito in casa lasciando in asso Gaetano che non riusciva a smettere più di ridere. Se pensava a quell’episodio le sembrava, con il vestito di seta, di essere divina; ed in effetti era molto bella.

Aveva lineamenti delicati, labbra non molto carnose ma ben fatte, il volto di un ovale magnifico, gli occhi neri e grandi. I capelli corvini ed un po’ ondulati e lunghi le davano un che di zingaresco. Era piuttosto piccola di statura, come tutte le donne pugliesi di quell’epoca allevate con pancotto e verdura bollita.

Faceva parte di una razza di gente mai distintasi per altezza fisica, ma robusta e forte.

Si guardò ad un piccolo specchio che aveva in una borsetta e si piacque. Era solo contrariata per non avere a disposizione uno specchio grande in cui guardarsi tutta, e fece giuramento con se stessa che avrebbe convinto sua madre a comperarle, quando si sposava, un armadio di quelli che allora andavano di moda, a due ante interamente coperte da specchio.

Si avvicinava la grande ora.

I ragazzi Anna li aveva mandati dai nonni a fare la creanza, cioè a dare gli auguri, e così, liberatasi da quei rompiscatole, dedicò qualche minuto a se stessa.

Vide Francesca che si specchiava e si inorgoglì del bel frutto partorito dal suo ventre: il suo ventre….

La gravidanza era ai primi mesi e, anche se i tessuti erano un po’ allentati, la pancia non si notava molto. Indossò un bel vestito di colore marrone con fiorellini rossi, piuttosto larghi, che nascondeva benissimo l’incipiente gravidanza.

Francesca l’aiutava a pettinarsi quando le disse all’improvviso:

“Sei sicura di volergli bene?”

“Certo mamma”.

“ Se hai qualche dubbio si può ancora rimediare. Dopo non più. Tuo padre sai com’è fatto, non vuole che la gente possa pensare o dire male di noi”.

“Lo so, ma io sono sicura di voler bene a Gaetano. Ti pare che se avessi dei dubbi gli avrei detto di venire con lo zio oggi?”

“Lo so, ma ho voluto chiedertelo lo stesso”.

Francesca sapeva bene che c’era effettivamente un punto della faccenda che poteva essere motivo di rottura, un ostacolo che per fortuna si sarebbe presentato subito e che, superato, le avrebbe permesso di guardare alla data del matrimonio con tranquillità: la dote.

Sua madre, anche se più espansiva del padre, non le aveva detto niente a riguardo, forse perché voleva farle una sorpresa, o forse perché non aveva niente anche lei. Così, dopo un breve scambio di battute, la conversazione cadde definitivamente.

Erano già le quattro.

Giuseppe ancora non si ritirava. Forse era passato dai suoi vecchi dopo essere stato in piazza ad ingaggiare un po’ di uomini per raccogliere le olive il giorno successivo.

Il ritardo impensieriva le due donne che temevano di doversi trovare da sole con gli ospiti, Erano appena passati cinque minuti, quando sentirono il passo deciso e rassicurante di Giuseppe. I loro visi, maschere incise nella pietra, imperturbabili alle avversità e sofferenze più atroci, si rianimarono a, all’aprirsi della porta, una fragorosa risata rallegrò l’ambiente che per un momento era diventato tetro.

“Finalmente sei tornato! – esclamò Anna, resa più giovane e più bella dalla pettinatura che le aveva fatto la figlia.

“Perché, son già venuti?” – tirò dal taschino del gilè la vecchia cipolla – “ma sono appena le quattro”.

“Le quattro e cinque” – replicò Anna.
“Anche se fosse, quelli prima delle quattro e mezza non verranno. Non si brucia certo la

cipolla se faranno mezz’ora di ritardo”. “Potevano essere puntuali e tu non c’eri”. “Non vi avrebbero mangiato mica”.

Questo scambio di battute frivole, cui non si era abituati in quella casa, mise un po’ di allegria a tutti. Giuseppe sfoderava il suo humor ed Anna, che conosceva il suo uomo più del libro del rosario che tutte le sere all’Angelus leggeva alla luce della lucerna da olio, capiva che era felice e sicuro. Non doveva preoccuparsi di niente. La conversazione sarebbe stata tranquilla sempre che dall’altra parte non ci fossero state le temute spacconate.

Si atteggiava in modo da calamitare gli sguardi del marito che si accendevano di quella passione resa più virulenta dalla giornata di riposo. Fossero stati soli, senza nessuna visita in programma, certamente il dialogo fra i due sarebbe continuato sotto le coperte.

Francesca coglieva nell’aria l’allegria e se ne faceva ampia provvista per ingannare il tempo, molto pigro a passare, ed aspettare.

“C’è permesso?” – si sentì ad un tratto dietro la porta: Giuseppe si avvicinò all’uscio, aprì la porta e si vide Minguccio e dietro di lui, quasi nascosto, Gaetano che abbozzava con un cenno della testa un timido saluto.

“Avanti, compare, avanti” – e lasciò libero il passaggio ai due ospiti che, prima l’uno, poi l’altro gli strinsero calorosamente la mano. Un po’ di fastidio aveva provato nel contatto con la mano del futuro genero, fredda e sudaticcia, ma si poteva capire l’emozione.

Minguccio gli era sembrato più gradasso del solito con la catena d’oro al gilè portata in modo evidentemente ostentorio.

Anna andò incontro agli ospiti arrossendo un po’ per una certa ammirazione che si leggeva benissimo nello sguardo di Minguccio mentre la salutava. Francesca, che rimase impalata dietro il tavolo, balbettò un “buona sera” che le uscì di bocca come se qualcuno a forza glielo avesse tirato.

“Dai le sedie a compare Minguccio e a Gaetano”. “Sì, padre, ecco, sedetevi”.

L’imbarazzo del primo momento cominciava ad essere superato da una conversazione che si avviava a fatica.

I due protagonisti della serata si guardarono per un attimo, si studiarono e, quasi muovendosi su un campo minato, avviarono la conversazione.

“Brutto tempo stiamo avendo quest’anno. Il freddo e la pioggia ci stanno rovinando anche le olive”.

“Vorrei aspettare” – replicò Minguccio. “Quelle cadute ormai sono perse perché marce. Se non ci saranno venti cresceranno di più quelle ancora attaccate agli alberi ed alla fine il raccolto non dovrebbe essere male”.

“Avete ragione, compare, però chi ci assicura che il tempo migliorerà! Intanto il prezzo delle giornate è ancora buono. Stasera ho ingaggiato quattro cafoni a cinque lire. Sono pochi quelli che stanno raccogliendo e le giornate si mantengono basse. Non vorrei trovarmi nel fuoco della vendemmia, allora ho pagato anche otto lire”.

“Voi avete anche i ragazzi che vi danno una mano, non avete poi da spendere molto in salario. Io, invece, ho solo Gaetano. E’ vero che lui lavora per due, ma devo ingaggiare per forza molto più personale e, se comincio con il tempo che stiamo avendo questi giorni, non mi raccolgono neanche un sacco a persona.

E Giuseppe: “Voi avete più alberi, io ho solo un centinaio di piante e, fatto l’olio per la famiglia, avanza un cilindro appena che Anna si vende per conto suo durante l’anno per approntare il corredo a Francesca.

Si andava avanti così, con discorsi che, mentre pareva stessero per affrontare il nocciolo della questione, se ne allontanavano improvvisamente, e, questo rituale, mentre faceva piacere a Minguccio e Giuseppe, teneva sulle corde il resto dei presenti.

Gaetano seduto lontano dalla sua ragazza, così come era usanza nelle famiglie onorate, non poteva dire una parola senza che nessuno la sentisse. Così preferì starsene zitto guardando ora l’uno, ora l’altro, aspettando che la padrona di casa offrisse qualcosa da bere per inumidire la bocca che, senza aver detto una parola, sentiva bruciare.

La conversazione ad un certo momento si diresse verso il giusto obiettivo, e ve la dirottò Minguccio dopo aver esaurito tutto il proprio repertorio.

Giuseppe aveva aspettato, paziente, che fosse l’altro ad affrontare per primo la questione.

Bisogna stare attenti a ciò che si diceva perché, anche se niente era scritto, pure, le promesse fatte in quelle circostanze, per uomini d’onore, sarebbero state più vincolanti di un contratto davanti al notaio.

Francesca era trepidante, ma più ancora Anna che, essendo all’oscuro di ciò che Giuseppe aveva in animo di dire, guardava ora Minguccio, ora il marito, cercando di capire con anticipo dalle espressioni dei loro volti.

“Gaetano, come ho già detto, è un ragazzo sano e forte, non si stanca mai di lavorare, ed ha glia anni giusti per prendere moglie. Siamo venuti a dare la parola per chiedere vostra figlia in matrimonio”.

“Francesca è ancora giovane” – interloquì timidamente Anna.

“A diciotto anni si può essere già madre di un paio di figli” – interruppe quasi bruscamente Minguccio che, ripreso il filo del discorso – “Come dicevo, ho voluto venire io perché è giusto che un uomo accompagni un altro uomo per certe questioni. Io sono stato per Gaetano un padre, e lui con me si è comportato sempre da vero figlio. Proprio perché è un giovane che merita gli ho voluto fare un regalo che per lui è una sorpresa e che in questa occasione prometto da uomo d’onore. Gli dono, per dote, l’oliveto che fu il mio primo terreno che comperai e che fu la mia fortuna, con l’augurio che diventi anche la sua fortuna”.

S’interruppe, come un vecchio istrione, per gustare la sorpresa che si leggeva sulle facce di tutti. Gaetano borbottò un “è troppo” che fece ancora più piacere al suo benefattore che subito rispose:

“Te lo sei meritato, non è troppo, è soltanto giusto”.

La parola passava ora di diritto a Giuseppe per la controfferta.

“Per la verità io, sapete bene che ci sono altri ragazzi a cui pensare, ho in animo di dare per dote a mia figlia non un terreno, anche se capisco che farebbe più piacere a gente di campagna come noi, ma una somma che avevo messo da parte per impiantare un vigneto. Ecco, la dote di Francesca, oltre al corredo di panni a venti ed un po’ di oro a cui ha già pensato Anna, è di mille lire con le quali potranno comprare un terrenuccio”.

“Qua la mano”- rispose Minguccio porgendo la sua – “bisogna soltanto fissare la data del matrimonio. Sono due bravi giovani e partono già con un po’ di sostanza. Si faranno certamente una posizione migliore della nostra”.

Anna, felicissima, si alzò da tavola e dalla madia prese una guantiera di ferro cromato con fondo arabescato, colma di taralli scaldatelli, fichi secchi e mandorle al forno, e la offrì prima a Minguccio, poi a Gaetano ed agli altri.

Giuseppe andò a prendere una bottiglia di vino conservato qualche anno prima e , quando l’aprì, un denso profumo impregnò la stanza. Era un vino speciale, fatto di uva di Troia ed aromatizzato con vino cotto in cui, era vecchia usanza, si facevano bollire anche i fichi secchi che servivano a dare non solo maggior profumo, ma ad elevare il già notevole grado alcoolico.

Gaetano, ormai fidanzato ufficiale, avvicinò un po’ la sedia a quella di Francesca, ma intervenne, come un vecchio granatiere, Anna a placare i bollori e fu come una doccia fredda:

“Fino a quando non vi sposerete ricordatevi che in questa casa i vostri posti rimangono quelli di prima, uno da una parte, uno dall’altra del tavolo”.

Minguccio, dopo aver gustato i scaldatelli e fatto elogi ad Anna, ora che aveva sorseggiato il vino come un esperto cantiniere, cominciò ad elogiare Giuseppe:

“Questo vino di Troia che i settentrionali dicono sia buono soltanto per tagliarlo con l’acqua e con il loro aceto è un vero fuoco. Non hanno idea del vino se non hanno mai bevuto un bicchiere di questo, quei polentoni. Il vino dev’essere così, robusto, non sciacquatura di botte. Te lo devi sentire quando va in corpo”.

La conversazione prendeva un piglio più allegro, il fidanzamento era ormai cosa fatta. Tutti avevano tante cose da dire e, una volta superate le formalità, data la vecchia conoscenza delle due famiglie, cominciarono a parlare calorosamente di tante piccole cose.

Il paese, a quei tempi, non era molto grande anche se contava diverse migliaia di anime. La miseria generale costringerla alla coabitazione. I più poveri vivevano nelle masserie dove lavoravano dalla levata del sole fino al tramonto per poche lire, una pagnotta di pane nero ed un piatto di minestra al giorno. La minestra: cicoria, cardi selvatici e tutto ciò che nasceva spontaneamente nei campi.

Si racconta ancora che una volta, durante la mietitura, un padrone fece preparare una zuppa di cipolle, pancotto e alla fine vi mise un uovo. Tutti, quando fu versata la minestra, puntarono gli sguardi sull’uovo che troneggiava in mezzo al piatto comune, interrogandosi a chi sarebbe toccato. Cominciarono a mangiare.

Il pane stava per finire quando il padrone, quasi spazientito, fece dell’uovo un solo boccone esclamando:

- Ah, la grascia puttana! Se non lo mangiavo io andava a finire che si buttava.

Questi cafoni tornavano a casa ogni quindici giorni in periodi in cui c’erano normali lavori di coltura; quando poi si mieteva il grano, si vendemmiava o si raccoglievano le olive, rimanevano fino alla fine del raccolto.

Le case, quindi, anche se non molto grandi, anche se ospitavano due famiglie, di fatto erano abitate soltanto dai vecchi e dai bambini.

L’enorme densità demografica faceva sì che tutti si conoscessero. Così i nostri, legati anche da vincoli di comparaggio, trovarono mille argomenti di conversazione.

Francesca era felicissima. Tutto era andato bene, le paventate impennate di suo padre non si erano verificate, né compare Minguccio aveva sollecitato reazioni negative. Si era comportato invece da vero galantuomo surrogando bene la funzione di padre. Con Gaetano bisbigliò alcune parole approfittando della distrazione di Anna indaffarata vicino al focolare a tagliare fette di pane di grano duro, da colore giallognolo e profumato, che disponeva a corolla intorno al mucchio di brace; a tagliare un bel pezzo di pecorino abruzzese da offrire per un piccolo spuntino.

Il tempo passò in fretta.

Minguccio, ad un certo punto, estrasse da taschino del panciotto con ostentazione il suo bell’orologio d’oro a doppia cassa con quadrante di porcellana e si alzò quasi di scatto:

- Sono già le sette. Domani è un giorno di lavoro e bisogna alzarsi presto – poi, rivolto a Gaetano – Tu se vuoi restare, resta, anche se è meglio andare insieme a casa tua a dare la notizia a tua madre”.

Il “restate ancora per poco, non è tardi” detto quasi coralmente da Anna e Giuseppe, fu un invito a non aver dubbi che era già tardi e che bisognava andar via.

Si strinsero tutti la mano e Gaetano, che costretto al silenzio stava per intervenire come vero e legittimo protagonista, fu ancora una volta anticipato da Anna: -Puoi venire la sera per un’oretta..

Rassegna stampa

“Flash”, anno III, n.58 – gennaio 1983 – Recensione a “Storia di cafoni”
“Educazione e territorio”, anno 1°, n. 2 – giugno 1983 – Recensione di Grazia Marrone a “Storia di cafoni”
“Eco dell’Ossola – risveglio ossolano” n.36 – 29 settembre 1983 – Miscellanea / Libri – Libri – Vincenzo Rossi: “Storia di cafoni”
“il Resto del Carlino” 10 dicembre 1983 – “Storia di cafoni / Romanzo del commissario Crocetta”
“Il Messaggero” 10 dicembre 1983 – “Storia di cafoni”
Riviera della palme” anno I, n. 6 – maggio 1986 – Giuseppe Floridia: recensione a “Storia di cafoni”
“Per l’anno scolastico 2016/2017, la prof.ssa Angela Miccoli, docente di Italiano, Storia e Geografia, si è proposta di fare un percorso, insieme ai 22 giovani studenti della classe IªS della Scuola Secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo “Garibaldi Leone” di Trinitapoli (BT), adottando come libro di narrativa la “Storia di Cafoni ” di Mauro Crocetta – Schena Editore 2016″
“19 maggio 2017:  presso la Biblioteca civica “Monsignor Vincenzo Morra” di Trinitapoli (BT) “Paesaggi d’altri tempi: scorci di vita casalina d’inizio ‘900” – lettura, a cura degli alunni della classe 1a F in collaborazione con la classe 2a H dell’Istituto Comprensivo Garibaldi-Leone di Trinitapoli, di alcuni brani tratti dal libro “Storia di Cafoni” di Mauro Crocetta. L’iniziativa, curata dalla docente Angela Miccoli, è stata inserita all’interno del “Maggio dei Libri 2017″, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica”

Ristampa 2016

 

cafoni
ISBN 9788868061173

Gaetano e Francesca, fidanzati che si preparano a mettere su famiglia in un piccolo mondo antico che trasuda miseria, sudore, fatica e ingiustizie. Un mondo senza telefono o televisione né radio in cui Mauro Crocetta ci conduce, tracciando un itinerario antropologico che ci porta a guardare indietro, alle nostre radici, per capire come eravamo, da dove veniamo, qual è il nostro passato comune: non per un querulo lamento tipico di molti anziani che stanno di continuo a dire “ai miei tempi”, ma per capire quello che siamo e quello che avremmo potuto essere oggi, nell’era dello sradicamento, del mondo senza patrie, della globalizzazione senza frontiere, dell’umanità nomade.Un mondo tratteggiato con parole incisive e psicologicamente efficaci che molti giovani lettori conosceranno per la prima volta ma che altri, con i capelli già bianchi o radi come quelli di chi vi scrive, hanno letto negli anni ‘80, allorché nelle librerie pugliesi arrivò la prima edizione.

 

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