Critica letteraria

Parte, nel 1984 ,da una idea di Mauro Crocetta, condivisa dal prof. Giuseppe Lupi e dal prof. Tito Pasqualetti , il Premio letterario del Tascabile di San Benedetto del Tronto .
Come componente della giuria tecnica Mauro Crocetta recensisce i più importanti nomi della letteratura contemporanea.

Andrea Camilleri

Andrea Camilleri
La voce del Violino Sellerio Editore Palermo
“ Che la giornata non sarebbe stata assolutamente cosa il commissario Salvo Montalbano se ne fece subito persuaso non appena raprì le persiane della càmmara da letto …” Così inizia il racconto poliziesco di Camilleri con una lingua gergale intrisa di parole siciliane che si inseriscono nell’asciutto periodare con naturalezza, inventando una lingua certamente diversa dalla ricercatezza dotta del conterraneo Gesualdo Bufalino, o dallo sperimentalismo di Antonio Pizzuto . A volte l’arcaismo di certi lessemi popolari ( tabbuto per bara, ciriveddro per cervello, taliare per guardare, scinnire per scendere, sgriddrato per spalancato etc.) può essere di ostacolo alla comprensione, ma si supera la difficoltà facilmente essendo vigile l’autore nell’inserire l’antico suono verbale della sua terra in un contesto che lo rende assolutamente significante e concorre a rappresentare più vive le situazioni ed i personaggi.
Così l’agente Catarella, addetto al servizio di centralino, ignorante assai, distratto e superficiale, untuoso nell’ossequio da infastidire,è vero perché chiamando al telefono il suo capo, il commissario Montalbano, non dice “Scusi , dottore, devo comunicarle che …” ma il caramelloso ,servile ed arcaico “Domando pirdonanza e compressione, dottori… tre giorni passati cercarono proprio lei di lei, dottori, lei non c’era, però io me lo scordai a farle referenza”. Personaggio vero e credibile subito e perciò non fa difetto la sua lingua se non è italiano né siciliano, ma un misto, una divertente derivazione di esse.
Catarella, che mi ricorda un suo omologo che una notte mi telefonò preoccupato perché vi era un morto ed alla domanda di leggere provenienza e data del messaggio si schernì, il meschino, in mille scuse romanesche, perché si trattava di rituale segnalazione della polizia stradale riferentesi ad un incidente avvenuto tre giorni prima, introduce nel racconto con il ritmo giusto rendendo credibili situazioni e personaggi che l’autore si preoccupa, nella nota a pagina 209, di dichiarare assolutamente inventati.
Il dottor Salvo Montalbano, dai modi spicci, dal linguaggio nient’affatto dottorale, spesso da “caserma” correndo il rischio di cadere qualche volta nella macchietta, si muove con intuito investigativo e padronanza di mestiere tale che lo porta al limite della violazione della ingessante norma penale a volte necessario per seguire una traccia esile, piccoli indizi che portano alla scoperta del disegno criminoso ed alla identificazione degli autori. Mentre il giudice Niccolò Tommaseo, con le sue “inderogabili prerogative” , le prurigginose domande in sede di soppralluogo, le ipotesi di delitto ad opera di maniaco sessuale violentatore e sodomizzatore da una
parte ed il questore Bonetti-Alderighi dai dichiarati nobili natali, la mania di rimuovere tutto e tutti e la voglia di “rottamare” chiunque non fosse capace di seguirlo nella “accellerazione”, sono il contrasto necessario per simpatizzare con lo sgangherato commissario.
Infine lo scenario arido ed aspro nel cuore della Sicilia, ed un paese, Vigàta, identificabile in uno dei tanti della Provincia di Caltanissetta, con le strade dissestate e polverose, la campagna dai sinistri silenzi, la villetta in contrada “tre fontane” dove per caso il commissario scopre il cadavere nudo, riverso sul letto,, di una giovane donna, identificata poi per Michela Licalzi da cui partono le indagini.
La tecnica investigativa di Montalbano è semplice ed antica, basata sulla raccolta di minimi elementi e una informativa puntigliosa in netto contrasto con la scientificità dei metodi del collega e capo della scientifica dottor Arquà. E così, raccogliendo notizie sulla vittima e le sue frequentazioni, sul marito, prof Licalzi insigne ortopedico a Bologna, di gran lunga più vecchio di lei, scopre il legame sentimentale della bella signora con un seducente antiquario, tale Guido Serravalle, elegante e galante con il vizio del gioco che lo porta a contrarre debiti con gente malavitosa.
La povera signora Licalzi che, innamorata della contrada “tre fontane” di Vigàta ha pensato di costruirvi una villa, è costretta a gonfiare i rendiconti delle spese al danaroso marito per foraggiare l’insaziabile amante indebitato , per perdite al gioco, con cifre iperboliche.
Un vecchio violino di famiglia fatto espertizzare dal maestro Cataldo Barbera, concertista di fama internazionale, è valutato due miliardi trattandosi di un GUARNIERI . la signora Licalzi confida al suo amante la cosa ma questi, pensando che se venduto secondo i canali normali si sarebbe realizzato metà della somma stimata, pensa bene di risolvere la questione impossessandosi dello strumento eliminando il legittimo proprietario. Con Eolo Portinari, pregiudicato, parte da Bologna diretto a Palermo dove all’aeroporto l’attende l’amante mentre il complice presa a noleggio una macchina li segue con discrezione.
Nella camera da letto della villetta i due amanti hanno rapporti intimi fino al momento in cui il Serravalle, approfittando della posizione prona della Licalzi, spinge la testa di costei contro il materasso fino a soffocarla. Quindi, preso l’astuccio con il violino dalla vetrinetta, ignaro che il Guarnieri era stato sostituito da uno di poco valore, con l’amico Eolo torna a Bologna.
Ricostruzione puntuale alla quale avevano frapposto ostacoli i colleghi della questura interessati più ad apparire sulle cronache che ricercare la verità.
Il racconto termina come può terminare una qualsiasi indagine di polizia, con l’impegno di Montalbano a redigere il rapporto e la promessa di raggiungere la sua donna appena libero dall’impegno di lavoro.
Camilleri possiede l’arte del raccontare, la sapienza dell’invenzione, il gusto dell’ironia ed un amore per la sua terra che emerge discreto e costante da ogni pagina.
Vien da chiedersi in questa ultima stagione letteraria in cui primeggiano sulle pagine della critica e nelle hit- parade dei libri maggiormente venduti gente di una certa età e di gran mestiere che fine hanno fatto i pulp nostrani ed i loro epigoni? E’ auspicabile che finalmente coscienti dei propri mezzi abbiano cominciato a prendere un po’ sul serio la letteratura e cominciato a studiare seriamente da scrittori.
Mauro Crocetta

Arrigo Levi

Arrigo Levi Dialoghi sulla fede Il Mulino
Dopo una esplicita e chiara dichiarazione di laicità per evitare fraintendimenti e scorrette interpretazioni, Arrigo Levi, da storico delle religioni affronta la questione della fede.
Fede nel suo significato più profondo che va ben oltre le definizioni riportate dall’A. e tratte dal dizionario Treccani, e da quello Devoto-Oli.
Due fedi, dice Levi, sono possibili. Fedi che non si escludono, non si guerreggiano e che nella loro diversa natura tendono ad un fine comune. Le parole di Giovanni Paolo II, e del rabbino Toaff per la guerra in Bosnia sono dure nel loro enunciato, forti nel loro significato. Nascono entrambe dalla fede in Dio che essendo padre degli uomini, di tutti gli uomini, non può non condannare tutto ciò che si rivolta contro, che professa la sopraffazione, che teorizza la pulizia etnica.
Ed allo stesso fine tende la fede laica che ha come inizio e fine la sacralità dell’uomo, la intangibilità della sua dignità, la forza della ragione che non consente qualunque tipo di sopraffazione.
Dalla esigenza di superare gli ostacoli, dalla speranza di sopravvivere alle tragedie dell’individuo e della storia nasce l’esigenza di Dio. “ Più che nell’ammirazione delle glorie del creato, è nel profondo della disperazione per le ingiustizie della vita e della storia, nei momenti in cui l’uomo vuole sperare contro ogni speranza, che egli proietta la sua forza d’animo nella creazione di Dio: Dio, figlio della sventura dell’uomo più che dei suoi trionfi”. E’ la fede nella speranza che dà corpo all’idea di Dio misericordioso che aiuta
i deboli a vincere le angosce della sofferenza; gli oppressi nella vittoria finale di una giustizia superiore. Dio creatura dell’uomo più che suo creatore; compagno nella lotta contro il male, forza che consente al credente di superare la disperazione nelle tragedie. A questa fede religiosa, fede in Dio, non si contrappone quella laica che non ha bisogno di inventare Dio, per superare gli ostacoli del vivere, ma trova dentro di se le ragioni più profonde, in quell’ottimismo della volontà che non si piega al pessimismo della ragione e perciò trascende ogni ragione.
Se il credente cristiano o ebreo sintetizza la fede religiosa nel comandamento “ Ama il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima, ed ama il prossimo tuo come te stesso” il laico ( ma si tratta sempre di un particolare laico di cultura greco-romana-ebraico- cristiana) troverà nel comandamento dell’amore le ragioni della fede dell’uomo perché legittima l’esistenza di tutti gli uomini e perciò auspica una pace universale.
Che cosa hanno dunque in comune la fede in Dio e la fede nell’uomo?
La fede, madre di Dio e dell’uomo non ha spiegazioni possibili, ragionevoli, se non “ misteriosa, incausata ricerca di un senso delle cose, di un fine degli eventi che ci troviamo a vivere” E’ uno stato di grazia che ci consente di capire il male che è nella storia e vincerlo nella speranza di una pace tra gli uomini. “La fede nella forza dello spirito umano, nella ragione dell’uomo, e la fede in Dio sono egualmente incausate, egualmente misteriose”
In questa idea della comune origine delle due fedi Levi dice più oltre “ l’Idea wojtyliana di Dio compagno di viaggio dell’uomo nel confronto con il male mi pare in definitiva perfettamente laica, umanistica. E il Cristo crocifisso è il simbolo, la prova della solidarietà di Dio con l’uomo sofferente”. Dio che si fa carne e si fa crocifiggere è la negazione dell’onnipotenza, è la dichiarazione della sacralità dell’uomo ed è in ciò che l’umanesimo greco (laico) si coniuga con quello ebraico-cristiano.

L’ecumenismo religioso e l’universalismo laico sono in fondo due modi di essere e di vivere la stessa tensione ideale, la stessa finalità esistenziale. Entrambe si muovono dall’uomo come categoria universale per tornare all’uomo come valore assoluto. In tale ottica scompare l’idea del diverso, dello straniero. Scompaiono concetti come popolo, come razza. Non esiste più il popolo di Dio ( estremismo pericoloso del fondamentalismo di tutte le religioni) né la razza ( estremismo laico delle ideologie) ma il genere umano che è tutto intero popolo di Dio, secondo la fede religiosa, ed unica razza, secondo la fede laica. Atto di fede in Dio figlio dell’uomo, figlio della sua necessità, figlio della ragione. Dio che santifica l’uomo; l’uomo che innalza sugli altari Dio, entrambi compagni di viaggio verso quel nulla eterno del pensiero laico che per il credente è il sublime Aldilà.
Se il credente trova nell’esercizio dei riti una certa serenità ed interiore appagamento, il laico vive la solitudine della ragione che non ha rituali, che non ha formule magiche quali sono la preghiera che spesso colma il vuoto, illumina il buio, fa scorgere la terra di nessuno.
Le osservazioni di Andrea Riccardi sono quelle naturalmente del credente in un Dio rivelato e creatore, non figlio dell’Uomo, ma suo creatore, senza però spiegare con argomentazioni convincenti il nucleo fondamentale del cristianesimo: la necessità dell’incarnazione e del supplizio in croce di Cristo figlio di Dio e dell’uomo.
Ciò , secondo Levi , in fondo non ha importanza, perché la fede in quanto tale non ha bisogno di spiegazioni ,e sia quella laica che quella religiosa sono incausate . Ma entrambe sono necessitate, oggi più di ieri, per aver l’uomo prodotto strumenti di distruzione totale, di proseguire, come per file parallele, l’obbiettivo della difesa dell’uomo, del suo valore primario che è la vita.

Per raggiungere tale scopo bisogna abbattere gli steccati che ci dividono, le incomprensioni millenarie alimentate dai fondamentalismi religiosi, aprirsi insomma al dialogo, usare quella “forza debole”, espressione usata per la prima volta a Varsavia il 1° settembre 1989 in un convegno interreligioso organizzato dalla Comunità Sant’Egidio, da Pietro Rossano ; forza che trae origine non dal potere politico od economico, ma come dice Paolo nella lettera ai Corinti “ quando sono debole è allora che sono forte”. Forza espressa non nella potenza politica, ma nelle ragioni del dialogo; non nella sopraffazione ma nel confronto incessante delle proprie ragioni con quelle degli altri. si direbbe laicamente. “Forza debole” che è forza della parola e non della armi, del dialogo e non della sopraffazione, della pace e non della guerra. Ed in ciò, in questa metodologia di vita e di ricerca, più che di filosofia, Levi trova assoluta consonanza con il pensiero di Riccardi che è poi il manifesto pedagogico della Comunità di Sant’Egidio.
“La via della parola, la prassi della “forza debole” accomuna i credenti, religiosi o laici.”
Ciò che ispira tutto il libro sia nella esposizione di elaborate riflessioni sul pensiero laico di Levi , che in quello religioso di Riccardi e Paglia, è la ferma convinzione che vi è una sola via possibile per la speranza che è quella del dialogo; un solo obbiettivo per tutta l’umanità che è la pace.
Martinsicuro. 04.07.2000
Mauro Crocetta

Chiara Gamberale

Chiara Gamberale Una vita sottile
Marsilio Ed. 1999
Raccontare la vita è forse più difficile che viverla. Nel segno tracciato sulla carta bianca far scorrere le emozioni, le vibranti pulsioni di una crisalide che fatica a trasformarsi in farfalla, e poi scuotere le ali che non sapeva di avere compresse in un bozzolo sgraziato. Dipanare l’intricatissimo groviglio con la vigile coscienza di ogni gesto, ogni attimo, importanti per ritrovare la strada, per tornare a respirare aria di vita, documentando le angosce, gli attimi di gioia, le poche vittorie, le molte sconfitte. Testimoniare il tempo dell’anima che ha scansioni diverse da quello fisico, eppure con esso confrontarsi, corpo inerte che ha bisogno di ali per volare.
Chiara Gamberale nel suo raccontarsi non coinvolge gli “altri” con l’acredine rancorosa del perdente, né con la spocchiosa verve contestataria di coloro che “sputano sulla scuola, lo Stato, e la famiglia e poi rimangono a scuola, nello Stato e in famiglia”, ma con l’amore di chi sa che per quegli “altri” ha preso forma la sua essenza. E per tutto ciò si sforza di trovare il segno giusto e la parola retrocede all’ideogramma da cui fu originata per essere più vera: il segno, il suono, il senso una stilla della sua anima.
Testimonianza di un mal di vivere proprio dei suoi giovani anni di cui senti la freschezza ed il profumo come di un fiore in primavera che apre timidamente il cuore al sole ed i suoi teneri petali tremano terrorizzati per un’improvvisa brina.
La delicata, continua sospensione di sentimenti; la difficile mediazione tra “Pensiero ed Azione” è il filo sottile che unisce i ritratti a memoria degli amici come Elena, tanto
diversa ma a lei tanto complementare, o Emiliano a cui si sente legata “ perché quello che ci unisce è forte e profondo e perché ci brucia dentro lo stesso furore”, o Paola Ricca Raffaelli , insegnante di lettere al ginnasio, “ vessillifera di quel sapere antico, così lontano e così vicino” il cui nome anagrammato si trasforma in “Parlaci Farfalla”, di cui sente il fascino intellettuale. In tale galleria di ritratti dominante è la figura del padre di cui ammira l’impegno e la costanza per superare quella montagna che limitava l’orizzonte, celato in una scrigno segreto la lampada magica del successo , la luce guida che aiuterà anche lei a ritrovare la strada per uscire da quell’assurdo gioco della morte, che gli specialisti chiamano anoressia, e tornare a vivere.
La crisalide diventata farfalla finalmente può volare.
Diario dell’anima, impalpabile eppur vero, cadenzato da brani di intensa liricità, epico nel suo antico significato di “épos” , parola.
Mauro Crocetta
Martinsicuro,22/07/99

Claudio Piersanti

Claudio Piersanti Luisa e il Silenzio ed. Feltrinelli
Luisa, donna non più giovane, lavora in una azienda di giocattoli che hanno fatto la fortuna di un uomo fattosi da solo, uno dei tanti di una non definita grande città del nord industriale afflitta dal gelo e dalla nebbia d’inverno e dall’insopportabile calura d’estate.
A più di cinquant’anni può dirsi professionalmente arrivata, avendo un importante incarico nell’amministrazione, e la totale fiducia del “vecchio” cummenda, che la incarica addirittura di mettere ordine nei suoi privatissimi registri contabili poiché non si fida del suo commercialista.
Ma è nel suo silenzioso appartamento che i conti non tornano. Sola, in un misero alloggio, con un cardellino in gabbia a farle compagnia, i demenziali programmi televisivi , il vocio fastidioso dei ragazzacci in strada, lo gommare delle motociclette che rompono il silenzio fragorosamente.
La sua vita una ripetitiva sequenza di azioni prive ormai di qualsiasi senso, dimenticato il sapore di una pur lieve emozione, consumata giorno per giorno inutilmente.
I ricordi di una lunga parentesi di vita matrimoniale con un bel giovanotto dai morbidi riccioli, Bruno, guardato e desiderato dalle sue amiche, esauritasi nella sterile attesa di un figlio mai venuto e conclusasi con la separazione ed il divorzio.
La speranza di poter ricucire un rapporto esauritosi e consumato da tempo in una assurda speranza che mostra subito tutte le sue contraddizioni, la impossibilità ad esistere, troppo prigioniera della solitudine lei, troppo banale la vita di lui.
Ed infine la liberazione, in quell’angusto appartamentino, da un peso diventato insopportabile, da una ingiustificata esistenza , da una prigionia dalla quale non ha possibilità di uscire. La morte non la sorprende. Cancellati i ricordi, spento ogni interesse, la morte redige il suo atto formale come un vecchio notaio, portandosi via brandelli di un corpo che aveva da tempo smesso di vivere.
Si avverte in tutto il racconto una ricerca su ciò che può rappresentare la condizione della solitudine in una donna, non più giovane, in una città dove l’individuo rimane sempre più solo, nell’ottuso silenzio delle pareti domestiche ,con il brusio insensato della televisione che ti da l’illusione di partecipare ai destini del mondo, ma che ti lascia nella misera condizione di confinato nella prigione del tuo cuore svuotato da ogni emozione. Ed il silenzio di Luisa è la morte che ci portiamo dentro, che prende i nostri spazi vitali e ci soffoca , ci annienta prima che il corpo deperisca.
Il tentativo di riprendere la storia con Bruno, o le fantasie su un occasionale incontro di un omino per bene in treno accendono nella donna speranze deboli che non hanno la forza di approdare a concretezze. Rimane in bilico sul ciglio di un burrone cercando ti tornare in dietro, ma più forte è la seduzione che il vertiginoso baratro schiude davanti a sé e si lascia così cadere attratta dal mortale amplesso.
Mauro Crocetta
28 giugno 2000

Gabriel Garcia Ma'rquez

Gabriel Garcìa Màrquez Cent’anni di solitudine
Il lungo romanzo che è fondamentale per la notorietà che diede subito al suo autore e certamente contribuì non poco all’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1982, fu scritto in diciotto mesi e pubblicato nel 1967.
Vi si racconta la storia di una famiglia, i Buendia, dal suo capostipite Josè Arcadio, e di una città, Macondo dal suo nascere fino all’ultimo rampollo dei Buendia, Aureliano Babilonia, ed alla morte dell’ultra centenaria Ursula, moglie di Iosè Arcadio.
Nella storia di Macondo vi è in qualòche modo condensata la storia dei paesi dell’America latina, dal loro nascere in spirito di libertà alla scoperta del potere e con esso del sopruso, alla conquista subdola dei gringos con i loro profumi,le donne agghindate, le autovetture, e le mille altre diavolerie moderne.
Il racconto fitto di piccoli avvenimenti rappresenta un tempo senza tempo e personaggi che, tranne la vecchia Ursula, il colonnello Aureliano e la sorella Amaranta, difficilmente superano la dimensione del bozzetto mancanti di un approfondimento psicologico. Ma probabilmente ciò che si pone l’autore è raccontare il degrado di una civiltà arcaica contadina , contaminata da una industriale e moderna.

Raffaele La Capria

LA MOSCA NELLA BOTTIGLIA Elogio del senso comune
Raffaele La Capria Ed. Rizzoli
Vi è, nella storia recente, una omologazione nel linguaggio, nel gusto, nell’atteggiamento determinato da un involgarimento che tende a soffocare e ad eliminare manifestazioni libere dello spirito.
L’eccessiva teorizzazione ha creato confini , eretto steccati entro i quali ha ridotto in schiavitù, legato ai ceppi l’arte, sia quella visiva ( pittura, scultura ) che quella verbale ( poesia , narrativa ).
“ Ragionieri” della parola hanno dissacrato opere letterarie contabilizzando ripetizioni e riferimenti, massacrando capolavori o magnificando inconsistenti opere di poesia e di narrativa, delle quali fa fino parlare in salotti pubblici e privati, nei sussiegosi dibattiti e consacrazioni televisive.
Maestri della insulsa verbosità hanno elaborato “ concettini” a cui si sono ispirati movimenti che hanno decretato la morte dell’arte e la nascita di un prodotto consumistico, nel senso proprio di “ usa e getta”.
Il piacere che suscitava l’opera d’arte è stato sostituito dalla comprensione di ciò che l’artista con il suo prodotto ha voluto dire. Il concetto debole ed abortivo si è sostituito al bello, al profondamente emozionale. Così “il cesso” di Duchamp e “ la merda d’artista” di Piero Manzoni, cito La Capria, ma potrei aggiungere, guidato dal suo spiritello che è il senso comune, gli scheletri ripuliti con acqua e sapone di Marina Abramovich, le foto del divinizzato Andy Warhol, i disgustosi hamburger di Claves Oldemburg, la stupefacente pila di Iasper Johns, hanno sostituito la pietà Rondanini di Michelangelo, drammatica rappresentazione del dolore e della senilità, la lievezza di Dafne che va trasformandosi in lauro per sfuggire al corteggiamento di Apollo nella stupenda rappresentazione del Bernini, così pure i sacchi di Burri ed i suoi profondi rossi, la paccottiglia di Christo o per prendere la citazione di La Capria ancora Les Damoiselles d’Avignon di Picasso hanno preso il posto de “il Bacco” di Michelangelo Merisi o,per citare esempi a noi più prossimi “La traversata degli Appennini” di Giuseppe De Nittis, la ineffabile bellezza delle cere di Medardo Rosso.
Si è, insomma , sostituito il concetto di bellezza nell’arte, con il “concetto” tout- court, e quando quest’ultimo ha cominciato a sgonfiarsi come un palloncino punto da uno spillo ( mi torna in mente il palloncino rosso di P. Manzoni), si è annullato nel niente. Ma si è ripreso, per rimanere nella metafora, a gonfiare altri palloncini scoppiati uno dopo l’altro perché il
niente ha in sé la forza nichilistica dell’autodistruzione per essere, qual’è, niente allo stato puro, niente in assoluto.
Questo secolo, che ha massacrato ogni forma e manifestazione di individualità nella massificazione ideologizzante di destra e di sinistra, ha prodotto una tale quantità di palloncini ( gli ismi che si sono succeduti sulla scena dell’arte sono veramente tanti), per cui ci sentiamo, quando non siamo schierati, in preda al panico, nella disagevole condizione di chi non “sa”, perché l’emozione è stata eliminata come inopportuna, la bellezza come accessorio inutile.
Si è fatto e si fa terrorismo culturale ed intellettuale. Il buon senso e non il senso comune ci costringe a costruire ragionamenti complicati per entrare più che nell’opera per le emozioni che suscita, nel suo profondo significato, nella sua concettosità. E’ lo stesso Picasso che nel saggio “L’arte non esiste” del 1935 sostiene “l’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto ed il cervello possono concepire indipendentemente da ogni canone. Non importa quello che l’artista fa ma quello che egli è”.
Ed allora, se non si provano emozioni, se non si è capaci di funamboliche dissertazioni, bisogna affidarsi e fidarsi degli esperti, si badi bene, non dei critici, categoria in estinzione, intellettuali onesti che esprimevano in parole le emozioni, ma di esperti, dissacratori del buon gusto, attenti alle leggi del mercato, alle quotazioni nel borsino dell’arte, alle fiere dove una volta si vendevano maiali e somari ed ora si espongono i c.d. prodotti dell’ingegno.
Octavio Paz, messicano premio Nobel 1990 per la letteratura, ammonisce “Bisogna lottare per un’arte e per una letteratura che non si riducano al prezzo, alle speculazioni commerciali. E per questo ci vuole coraggio. Così nella letteratura con il fenomeno dei best-seller troppo facili. Nelle arti figurative il fenomeno delle quotazioni folli di opere che non rimarranno neppure”.
Non si è più capaci di far fiorire una parola, come illuminazione, da lunghi silenzi, come suggeriva Ungaretti. La parola sciatta, rumorosa, inutile, brodaglia di una sapienza inconsistente, ridondante quanto vacua, priva di contenuto, spazzatura.
“L’artista” non è più, come dice un antico canto atzeco, “ umile, copioso, vario, irrequieto, sincero, pronto. Studia, è abile, parla col suo cuore, secondo la verità, compone le cose, crea, dispone con ordine il mondo, lo fa armonioso, lo accorda.”
Raffaele La Capria con il suo libretto ci libera dal complesso di inferiorità verso pseudo artisti e letterati e con il suo procedere apparentemente irregolare, sempre provocatorio, attento e vigile nella rappresentazione di un decadimento di stile e di gusto , ci offre la bussola, il suo angelo custode per uscire dal ghetto, dalla prigionia della omologata ed omologante cultura, dalla bottiglia, per riprendere la sua metafora, in cui dalla nascita siamo costretti a vivere.
La sua bussola che lo porta a navigare sfuggendo ai pantani marcescenti degli ideologismi in un mare aperto dove le insidie sono di esaltanti vitalità, di vibranti emozioni, è il suo “senso comune”
E’ ciò che lo fa sfuggire alle sabbie mobili dei significati e significanti, per la seduzione della bellezza in un’opera d’arte; è ciò che gli fa dire senza possibilità di equivoci che “ separare l’arte dalla bellezza è stato il compito di chi ha voluto rendere il mondo più triste”.
Martinsicuro,19.07.1997
Mauro Crocetta

Roberto Pazzi

Roberto Pazzi
La Principessa e il Drago ed. Garzanti
E’, questo lungo racconto di Pazzi, la storia di un tenero, delicato amore tra il granduca Giorgio Alexandrovich Romanov, fratello dell’ultimo zar Nicola II e la appassionata e bellissima cugina Elena.
Lui, figura dolce e trasognata, afflitto da giovanissimo dalla tisi che ne accentua la naturale attitudine alla ricerca , nella vita, di ciò che ne è l’eterna negazione; lei, unica possibile compagna e complice nella lacerazione del velo sottilissimo che separa la vita dal sogno.
Ma forse è solo pretesto per raccontare la metafora della vita trasformata, moltiplicata, dilatata come in uno specchio per diventare finzione, sogno in cui solo è possibile concretare i desideri , vedere tutto ciò che è stato e che poteva essere o che sarebbe stato se…
Così è possibile una nuova realtà confusa tra immaginazione e storia, vissuta comunque con forza sempre.
Diventa possibile allora in una visionaria realtà la fuga a Cannes con l’amata Elena, lontana la Crimea, lontano il castello di Livadio , libero finalmente dai servigi dello zelante ed infido aiutante di campo, principe Ourousov.
Così il sogno si confonde con una realtà vissuta che diventa impalpabile vento nei ricordi di una ingenerosa adolescenza: il viaggio con il fratello Nicola per le terre d’Asia, la notte d’amore in Egitto, la crisi per l’acuirsi del male a Bombay ed il precipitoso ritorno su un incrociatore da guerra alla sua regale dimora nel castello di Livadio.
L’amore per Elena, unica realtà possibile, resa ormai irraggiungibile dall’altro Giorgio, quello dello specchio incantato, insidiato nelle sue carni, subdolo, devastatore, impietoso, che lo costringe alla immobilità atroce di una attesa infinita. Ed il tempo che sarebbe potuto essere gioioso nella allegra e felice compagnia della sua donna, diventa privo di passioni, “ un lungo rimorso”, Una banale attesa della fine.
Il desiderio di risolvere il mistero angoscioso della morte lo porta a conoscere Adamo, patriarca georgiano di età immemorabile: Ed è il desiderio di scoprire la possibilità di una lunga attesa, di una complicità durevole degli abitatori centenari della terra più sublime della Russia, ove ha dimora la Sovrana di quell’infinito esistere dopo l’esistere.
Carpire i segreti, cercare la via che conduce a quella valle dove non abita la morte, dove si appartò in una vita senza tempo lo zar Alessandro il Benedetto è ciò che vorrebbe Adamo i cui ricordi, come le parole, sono aria e vento e silenzio.
Così comincia il suo viaggio per gli altissimi monti del Caucaso, verso l’Ebrus, il più maestoso, coperto di nevi perenni, alla ricerca del luogo senza tempo; eppoi nel passato, a Sant’Elena, in visita allo sconfitto dalla storia e dal tempo; ed ancora a Parigi il 21 gennaio 1793 nella piazza brulicante di cittadini per la esecuzione di Luigi XVI; ed ancora al capezzale dell’ava Caterina, amica di Volteire.
Viaggio nel futuro della Russia che ha sostituito l’emblema imperiale dell’aquila bicipite con la stella sovrastante la falce ed il martello.
Gioco di specchi dove il reale diventa solo immagine, finzione, moltiplicato, dilatato. E la vita stessa si perde in essi, in un viaggio dell’immaginazione dove è pure possibile vedere il futuro che non si è in grado di capire come il vessillo comunista dietro la porta del castello di Abas Tuman trasformato da residenza imperiale a sede di pubblici uffici.
Allora si scopre che è tutto finito, che quell’incomprensibile ,difficile sogno ci ha fatto squarciare il velo dell’oblio.
Svelato il mistero, Giorgio Alexandrovich Romanov può finalmente chiedere al compagno impiegato il proprio certificato di morte, liberato definitivamente dall’angoscioso incubo che lo aveva legato alla vita.
L’invenzione alla fine diventa storia vera di un personaggio esistito forse più nell’immaginario di Pazzi che nelle vicende terrene.
La poesia ha, in molte pagine, il sopravvento sulla narrazione che diventa affabulazione con suggestioni proprie di chi ha familiarità con le fantasie ed i luoghi drammatici e mistici della grande Russia.
Martinsicuro,11.07.1993

Vincenzo Cerami

Vincenzo Cerami FATTACCI Einaudi ed.
Autore di romanzi di successo come Un borghese piccolo piccolo con cui esordì nel mondo della carta stampata e sceneggiatore di importanti films insieme con Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Sergio Citti e da ultimo Roberto Benigni con il quale ha scritto Il piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Il mostro e La vita è bella, con FATTACCI Vincenzo Cerami torna a raccontare l’inquieta umanità degli anni settanta con netta predilezione per l’indagine psicologica di personaggi ai confini di ogni estremo sentimento e passione. Si avverte in ciò un’ attenzione particolare all’osservazione ,ed anche un’amara constatazione, un pessimismo di fondo che molto lo fanno somigliare al suo maestro Piepaolo Pasolini di Ragazzi di vita.
Sono quattro storie diverse per ambiente sociale, per dinamica eppure legate tra loro da un filo sottile, da una profonda consapevolezza nei personaggi della precarietà del vivere , della inutilità della vita.
Con La vendetta del canaro, Cerami, nel riportare fedelmente la ricostruzione dei fatti e le risultanze investigative e giudiziarie, racconta la Roma devastata dai palazzinari, le nuove periferie invase da gente sradicata dai loro paesi per trovare fortuna nella capitale dove spesso trovano solo delusioni. In questa periferia anonima e violenta, diventata negli anni 80 tristemente famosa per la c.d. “ banda della Magliana”, crescono i protagonisti, un pugile fallito, Gianfranco Ricci, ed un giovane , Pietro De Negri, che dopo tanti mestieri trova finalmente la possibilità di una vita dignitosa con un negozio di toilettatura per cani.
Ma fatalmente le due vite si incrociano e Pietro cade vittima delle angherie, dei soprusi, delle violenze fisiche e psichiche dell’ex pugile in un crescendo fino a quando, al colmo della sopportazione esplode la sua rabbia assassina che lo porta alla ideazione e fredda esecuzione di un feroce delitto. Il corpo del Ricci, imprigionato con uno stratagemma, viene mutilato in quelle parti che avevano rappresentato la superiorità, a suo modo, e strumento di sopraffazione. Recise le dita, per sfregiare le mani che avevano espresso la prepotenza con i pugni; accecati gli occhi minacciosi; troncata la lingua parolaia e blasfema; troncati i genitali espressione della virilità; sfondato il cranio e lavato il cervello con lo sciampo per cani a volerlo mondo dei misfatti che da quella testa erano partiti.
Pietro anche di fronte ai giudici rifiuterà la condizione di malato di mente perché vuole essere l’eroe, lo spirito buono di una antica mitologia, castigatore del male, vendicatore non delle umiliazioni e prepotenze subite sulla propria pelle, ma della comunità liberata così dal suo tiranno.
Ne L’omicidio del nano vi si racconta come un mondo svilito dai suoi simboli consumistici produca sofferenze, deviazioni, drammi.
E’ per comprarsi una motocicletta che Armando, un bel ragazzo con poca voglia di studiare ,accetta dal nano Mimmo Semeraro il lavoro di segretario, ma di fatto di amante, di partner di ogni forma di depravazione sessuale. Ma incontra un’altra ragazza in cerca di facile fortuna, Samantha , con la quale, malgrado la conoscenza in una situazione e contesto assolutamente assurdi, inizia una storia d’amore pulita. Sarà questa ritrovata innocenza la molla che farà scattare il gesto estremo per liberarsi dal mostro che aveva insozzato la sua e la giovinezza della ragazza.
Anche in questa storia pare sia necessario il lavacro di sangue nel processo di purificazione e di riscatto. Quando la comunità civile perde le sue certezze, i suoi valori, le sue sicurezze, si torna a quel rapporto ferino che non consente mediazioni e la giustizia diventa affare privato, sperimentato che quella delle carte bollate e degli avvocati non serve a niente.
Nel processo anche Armando chiede solo per sé la condanna riconoscendosi unico responsabile di un delitto del quale non si pente per la funzione liberatoria dal male che esso ha per lui significato .
Mimmo Semeraro, Samantha, Armando sono categorie estreme di questi anni in cui sempre più forti e frequenti sono le violenze private che si consumano all’ombra di pubbliche virtù.
Il boia di Albenga è il racconto squallido di un vecchio violento, Luciano Luberti, e di una giovane donna, sposa inappagata, certa Carla Gruber, trovata ferita a morte nella sua camera da letto. Personaggi inquieti, dalle vite piene di molti lati oscuri, di ombre che segnano il percorso e l’epilogo drammatico emersi da quell’inferno dove s’annidano vendette e rancori.
I marchesi Casati, tre protagonisti, Camillo marchese Casati Stampa di Soncino, la moglie Anna Fallarino, l’amante il giovane Massimo.
E’ la storia di un torbido e perverso amore tra il marchese detto Camillino, e la bella ed affascinante popolana Anna Fallarino. Così quello che doveva essere la realizzazione del sogno di un’arrampicatrice sociale diventa l’approdo in un mondo di perversione erotica e sentimentale.
Già dalla prima notte di matrimonio Anna si rende conto che la felicità del marchese è nel godere delle sue performance sessuali con il cameriere che lui si incarica di irretire e di pagare.
Nei dieci anni di matrimonio si consumano le più scellerate avventure con il marchese sempre attivo nella ricerca di nuovi ed occasionali partner , la macchina fotografica pronta a riprendere le più oscene situazioni. Ma si verifica un incidente di percorso. Anna incontra, quando la sua giovinezza da ormai deboli bagliori ed il corpo comincia ad evidenziare qualche piccolo segno di decadenza, Massimo, un giovane studente universitario amante del bel mondo e della vita. In lui rivede forse se stessa prima di conoscere il marchese, vede la sua ambizione, il piacere, la voglia smisurata di bruciare
tutto e subito. Se ne innamora pur nella consapevolezza che tale sentimento non le è consentito dal vigile marchese che vuole , pretende solo per sé il giocattolo delle sue perversioni.
In quella sera del 30 agosto 1970, nell’appartamento di via G. Puccini a Roma le fiammate di un fucile cal. 12 misero fine alla esistenza del povero Massimo, caduto nella rete vischiosa del diabolico marchese, insieme all’amante Anna ed allo stesso Camillino che dopo la mattanza rivolse a sé l’arma mortale.
Quattro fatti di cronaca, quattro vicende giudiziarie, quattro ritratti di una Italia inquieta.
Martinsicuro, 17.07.98
Mauro Crocetta

Rassegna stampa

“Riviera della palme” anno III, n. 4 – aprile 1987 – nell’inserto ‘Arte Cultura’ pag.II recensione di Mauro Crocetta a “A vite i tutte i jurne” di Dante Maffia
“Riviera della palme” anno III, n.6 – luglio – agosto 1987 – recensione di Mauro Crocetta a “Il dilemma nucleare” di Carlo Rubbia (ed. Sperling & Kupfer)
“Riviera delle palme” anno IV – luglio – ottobre 1988 – Recensione di Mauro Crocetta a “Il gioco dei potenti” di Piero Ottone (Oscar Mondadori)
“Riviera delle palme” anno V – 1989 – Recensione di Mauro Crocetta a “Il sogno della letteratura” di Giorgio Bàrberi Squarotti (1988 – Franco Angeli ed. Milano)
“Riviera delle palme” anno V n. 5/6 – maggio-luglio 1989 – Recensione di Mauro Crocetta su “Tornino i volti” di Italo Mancini (Marietti ed. 1989)
“Riviera della palme” anno VI, n. 7/8 – luglio – agosto 1990 – nell’inserto ‘Arte Cultura’ – pag.6 recensione di Mauro Crocetta a “Le menzogne della notte” di Gesualdo Bufalino, finalista al Premio del Tascabile
“Riviera della palme” anno IX n. 5 – 6 – maggio – agosto 1993 – nell’inserto ‘Arte Cultura’ pag. I: recensione di Mauro Crocetta a “La principessa e il drago” di Roberto Pazzi, finalista al Premio del Tascabile
“Riviera della palme” anno XI, n. 3 – maggio – giugno 1995 – nell’inserto ‘Arte Cultura’ pag. VI recensione di Mauro Crocetta a “Se una mattina d’estate un bambino” di Roberto Cotroneo, finalista al Premio del Tascabile
Riviera della palme” anno XII, n. 3 – maggio – giugno 1996 – nell’inserto ‘Arte e Cultura’ pag.V: recensione di Mauro Crocetta a “Dogana d’amore” di Nico Orengo, finalista al Premio Tascabile
Riviera della palme” anno XIII, n. 3 – maggio – giugno 1997 – nell’inserto ‘Arte e Cultura’ pag.VI: recensione di Mauro Crocetta a “La mosca nella bottiglia” di Raffaele La Capria, finalista al Premio del Tascabile
Riviera della palme” anno XIV, n. 3 – maggio – giugno 1998 – nell’inserto ‘Arte e Cultura’ pag.III – IV: recensione di Mauro Crocetta a “La voce del violino” di Andrea Camilleri, finalista al Premio del Tascabile
“Riviera della palme” anno XV, n. 3 – maggio – giugno 1999 – nell’inserto ‘Arte e Cultura’ pag.IX: recensione di Mauro Crocetta a “Una vita sottile” di Chiara Gamberale finalista al Premio del Tascabile
“Riviera della palme” anno XVI, n. 3/4 – maggio – agosto 2000 – recensione di Mauro Crocetta a “Luisa e il silenzio” di Claudio Piersanti Premio del Tascabile

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